Napoli. Sto percorrendo, dopo la cosiddetta Via degli Americani, l’Asse Mediano: una periferia continua, fitta di traffico. Da una parte smisurati cartelloni pubblicitari che non fanno vedere niente, una sopraelevata nel mezzo, e dall’altra incongrue villette e ristoranti per matrimoni con vista su auto e camion. Ho passato la mattina a spiare vertiginose discariche presidiate da militari, e sono diretto ora al settore monumentale dei rifiuti, la distesa di ecoballe che svettano in ciò che resta delle campagne napoletane. Ma è la normale bruttezza di queste strade senz’anima ora a turbarmi. E’ la terra dei fuochi descritta anche da Saviano nell’ultimo spaventoso capitolo di Gomorra. Di notte, qui, si alzano fumi densi e neri, accesi dai ragazzi rom, pagati per incendiare. I pneumatici, che la Campania paradossalmente importa con i camion, servono ad attutire le esplosioni dei solventi chimici.
La mia nuova guida, Pina Elmo, della “Rete campana Salute e ambiente”, mi racconta le lunghe lotte per fermare i Tir carichi di svariati rifiuti: arresti, pestaggi. L’appuntamento con lei era nello sterminato parcheggio di una serie di supermercati, una distesa di catrame e cemento a coprire - lo sanno tutti - strati di rifiuti, quindi ottenere altra terra e materiali di risulta per coprire altre discariche e così via, nel ciclo continuo di affari della camorra. Del resto lo si impara subito, come un’evidenza: supermercato e discarica sono l’uno il riflesso dell’altra, si specchiano e si rivelano a vicenda come una stessa materia, un’unica logica.
Poi svoltiamo a sinistra, e tra i cumuli di rifiuti e detriti sul ciglio della strada emerge una prostituta nera quasi bambina. Cosa fra le cose, vita dismessa, come i gruppi di africani che stagnano in attesa di un lavoro (magari nei campi inquinati di pomodori), immagine di una diversa prostituzione. Ci siamo. La chiamano anche “l’Ottava meraviglia”: sembrano installazioni, monoliti avvolti da plastiche nere nella campagna verde, separati da noi da un muretto sottile e una rete. Sono le gigantesche ecoballe, totem o dolmen che comunicano sgomento. Due chilometri quadrati di parallelepipedi neri che trattengono materiali tossici, veleni industriali e rifiuti urbani, di cui solo metà è sotto sequestro giudiziario. Tutt’intorno alberi di pesche mature, le pregiate percoche, ignare che il percolato che impregna ormai la terra raggiunga la loro linfa. Cani che abbaiano, guardiani in divisa oltre la rete a sorvegliare milioni di tonnellate di veleni che valgono oro per l’industria fasulla dello smaltimento. Perché nessuno, tanto meno la Impregilo, l’onnipresente azienda che domina e determina ogni politica dei rifiuti, è ormai in grado di farlo. Il resto di questa campagna, anche quando non si vede, è foderato da anni di sversamenti di rifiuti delle industrie del nord che alimentano i tumori. Gli impianti di Cdr (“combustibile da rifiuti”, ora declassati a “tritarifiuti”) confinano qui con le fragole. Chi non voleva più vedere la spazzatura sotto le finestre di città è stato esaudito dalla bacchetta magica, anzi militare, del governo. Pazienza che torni loro in altre forme. Nella frutta sul tavolo della cucina, per esempio. Nelle nanoparticelle diffuse dai fumi densi degli incendi.
Circa un mese fa la Commissione petizioni del Parlamento europeo (una socialista olandese, una verde danese, un conservatore tedesco) si recò a Napoli a verificare la “soluzione” alla crisi dei rifiuti. Quando Judith Merkies, capodelegazione, in stivaloni e guanti nella discarica di Terzigno, estrasse un pneumatico dicendo “questo non dovrebbe essere qui”, fu chiaro anche a loro che la soluzione all’emergenza era un bluff. La visita fu per i tre deputati uno shock politico e culturale: discariche sorvegliate come basi dell’esercito, inosservanza delle regole europee sull’impatto ambientale, assenza di trasparenza e consultazione degli abitanti. E nessuna strategia, nessuna rete di impianti per il riciclo e il compostaggio, null’altro che scavare buche, stoccare ecoballe sotto il cielo nella campagna agricola, gridare all’emergenza per avere mano libera nel militarizzare il territorio. Quando sono andato anch’io a vedere la discarica di Terzigno, alle falde del Vesuvio, nel cuore del parco nazionale, era appena stato arrestato un ragazzo sorpreso a filmare all’ingresso principale. Mi hanno guidato Mariella Tafuto, Elena Velussi, Anna Fava e Sabina Laddaga, volontarie del “CoReRi” (Coordinamento regionale rifiuti). La famosa emergenza rifiuti di Napoli era ed è “un marketing terroristico”, mi dicono mentre ci inoltriamo in un paesaggio di vigne e oliveti da cui viene la Falanghina del Vesuvio e il Lacrima Christi. La discarica (già cava di pietra lavica) è segnalata da stormi di gabbiani che svolazzano. Profonda un’ottantina di metri, è un cono rovesciato come l’Inferno di Dante, ma pieno di rifiuti, i dannati della materia. Passiamo dal retro. Cartelli militari avvertono: Zona di interesse strategico nazionale. Vietato l’ingresso.
“Gli abitanti non possono accedere ai dati – mi ripetono le guide – né sapere cosa viene messo negli impianti. Nessun controllo, anzi una sospensione dei diritti, e perfino un tribunale speciale per la Campania, una super-procura che accentra ogni denuncia e inchiesta nel settore ambientale (Legge 123). Ogni atto che qui avviene in materia di rifiuti è in deroga ai diritti costituzionali. Oltre al fatto che le strutture tecniche, le persone che firmano le ordinanze sono le stesse di sempre, anche quelle compromesse coi clan. O come Marta De Gennaro, responsabile del settore sanitario della Protezione civile, arrestata e inquisita nel 2008 col vice di Bertolaso per avere occultato rifiuti pericolosi, poi promossa a gestire il terremoto a l’Aquila”. Nella gestione governativa dei rifiuti c’è continuità con metodi e persone della camorra. “La camorra prima scava una voragine, ne usa i materiali e vi sversa i rifiuti tossici; la zona viene sequestrata e il governo vi mette i rifiuti urbani che coprono ogni prova”. (Prima della militarizzazione dei siti, alcune discariche vennero chiuse grazie alle denunce dei cittadini. Ora tutto è secretato).
Intorno a noi eucalipti, fiori, limoni, vigne. Dietro il muro grigio e il reticolato il cratere che diffonde il fetore. Lo osservo arrampicandomi: un inferno nell’oasi, cosparso di detriti biancastri come i gabbiani, che ruspe e camion non riescono del tutto a interrare. La Cava Vitiello, lì vicino, è stata scelta dal governo come prossima discarica, anche se il signor Vitiello (come l’Unione Europea) si indigna all’idea. Ma a fianco del campo da calcio panoramico di sua proprietà, col Vesuvio da una parte e i monti dietro cui c’è Sorrento dall’altra, una serie di silos che raccolgono percolato produce un rombo sinistro e costante. In questo parco naturale ai contadini è proibito erigere un muretto a secco o una rete per conigli, ma non silos e discariche.
Abbiamo proseguito il viaggio alla discarica di Chiaiano, già paradiso delle ciliegie, con tanto di sagra. Attraversato un pruneto, ci siamo fermati e affacciati sul vuoto: un immenso buco in cui strati di amianto triturato sono stati coperti da tonnellate di nuovi rifiuti. Un’altra discarica abusiva ufficializzata dal governo, a poca distanza dagli ospedali. Anche qui volteggiano i gabbiani, portatori d’inquinamento con le loro deiezioni.
Più tardi, nel pomeriggio inoltrato, l’ultima tappa di questo “spazzatour” è nel casertano, la cui terra riconosciuta come la più feconda del pianeta, vera e propria fabbrica di cibo, è ridotta quasi a un’immensa discarica. Mi conduce l’agronomo e ricercatore, già combattivo vicesindaco di Caserta, Giuseppe Messina. Mi parla dell’aumento in Italia della desertizzazione, dovuta al cattivo uso del suolo. L’anno d’inizio della discesa agli inferi è il 1997, da quando per contratto la Fibe-Impregilo (di proprietà della Fiat) è diventata proprietaria dei rifiuti, esautorando gli Enti locali. Esistono tecnologie in grado di riciclare completamente i rifiuti, ma se l’imprenditore è pagato per bruciare, ha un piano solo per bruciare, non per pensare soluzioni europee, avanzate, che tutelino l’ambiente, l’agricoltura, la salute. I parametri sono già curvati secondo interessi prestabiliti: il Conai per esempio (Consorzio nazionale imballaggi), che smaltisce bruciandole il 45% delle plastiche da raccolte differenziate in Italia, e guadagna sia nella produzione che nello smaltimento, non perora certo una riduzione degli imballaggi nella merce, ma incoraggia l’usa-e-getta. Come mi spiegavano Elena e Anna al mattino, “occorre superare la nozione di rifiuto. Parliamo invece di materia come risorsa, non come rifiuto. Nessuno investirà sul riciclo finché sono così forti gli altri interessi”.
Ci fermiamo quindi nel triangolo della morte, ultimo girone, a poche centinaia di metri da Casal di Principe: Parco Saurini, S. Tammaro, Ferrandelle. Ogni rilievo, ogni collina (ce ne sono tante) racchiude una discarica interrata, su cui crescono cespugli giallastri. Ma ce ne sono altre speciali, incredibili: montagne incolori, ecoballe di rifiuti senza neanche la plastica, denudate e impudiche sotto un impietoso cielo azzurro. Quelle che Bertolaso aveva dichiarato di avere eliminato, che nessun manto vegetale ricopre. Come se l’esplosione finale al rallentatore di Zabriskie Point si fosse adagiata e ricomposta in colline compatte, incollando ogni frammento. Una marmellata biancastra e fetida punteggiata di plastiche sbiadite. Otto milioni di tonnellate di rifiuti esibiti a pochi metri da coltivazioni, allevamenti di bufale, vecchi caseifici. Terreni generosi che valevano anche 200.000 euro all’ettaro, e ora non valgono più niente, se non per chi ne ricaverebbe altre discariche a cielo aperto. A poche centinaia di metri giacciono impianti per il compostaggio inutilizzati e boicottati. Anche qui, il solito cartello etichetta le montagne di veleno che chiunque può toccare: Area di Interesse Stategico Nazionale. Divieto di accesso. Ai piedi del cartello un flacone di Vernel, l’ammorbidente. Mi stordisce l’idea di qualcuno che ha cura di ammorbidire il bucato ma è incurante di avvelenare la terra, cieco a ogni relazione tra i suoi gesti.
Quando più tardi percorro a senso inverso la desolata e rumorosa “terra dei fuochi”, la quotidiana abitudine alla bruttezza dove tutto ha inizio, dentro di me ripercorro il senso di questo reportage: sono i rifiuti la nostra nuova frontiera del Sacro, indissolubile dal Potere. Se “sacrare” qualcosa o qualcuno vuol dire separarlo dall’uso comune, dalla vita, noi ci siamo affacciati sulle discariche con terrore e tremore come su crateri di vulcani attivi, abbiamo contemplato le ecoballe come temibili fascinosi templi, e gli altari incolori, disgustosi e ipnotici che rendono alieno ciò che è stato nostro, separato per sempre, come la bottiglia di Vernel. Culmine della nostra alienazione, divinizziamo ciò che di noi non riconosciamo più, ma a cui sacrifichiamo tutto. “E’ un olocausto bianco”, mi aveva detto Mariella, una delle mie guide, invitandomi qui. Ma ciò che accade da anni in Campania non è che un laboratorio di quello che succederà, e sta anzi già succedendo, nel resto dell’Italia.
La mia nuova guida, Pina Elmo, della “Rete campana Salute e ambiente”, mi racconta le lunghe lotte per fermare i Tir carichi di svariati rifiuti: arresti, pestaggi. L’appuntamento con lei era nello sterminato parcheggio di una serie di supermercati, una distesa di catrame e cemento a coprire - lo sanno tutti - strati di rifiuti, quindi ottenere altra terra e materiali di risulta per coprire altre discariche e così via, nel ciclo continuo di affari della camorra. Del resto lo si impara subito, come un’evidenza: supermercato e discarica sono l’uno il riflesso dell’altra, si specchiano e si rivelano a vicenda come una stessa materia, un’unica logica.
Poi svoltiamo a sinistra, e tra i cumuli di rifiuti e detriti sul ciglio della strada emerge una prostituta nera quasi bambina. Cosa fra le cose, vita dismessa, come i gruppi di africani che stagnano in attesa di un lavoro (magari nei campi inquinati di pomodori), immagine di una diversa prostituzione. Ci siamo. La chiamano anche “l’Ottava meraviglia”: sembrano installazioni, monoliti avvolti da plastiche nere nella campagna verde, separati da noi da un muretto sottile e una rete. Sono le gigantesche ecoballe, totem o dolmen che comunicano sgomento. Due chilometri quadrati di parallelepipedi neri che trattengono materiali tossici, veleni industriali e rifiuti urbani, di cui solo metà è sotto sequestro giudiziario. Tutt’intorno alberi di pesche mature, le pregiate percoche, ignare che il percolato che impregna ormai la terra raggiunga la loro linfa. Cani che abbaiano, guardiani in divisa oltre la rete a sorvegliare milioni di tonnellate di veleni che valgono oro per l’industria fasulla dello smaltimento. Perché nessuno, tanto meno la Impregilo, l’onnipresente azienda che domina e determina ogni politica dei rifiuti, è ormai in grado di farlo. Il resto di questa campagna, anche quando non si vede, è foderato da anni di sversamenti di rifiuti delle industrie del nord che alimentano i tumori. Gli impianti di Cdr (“combustibile da rifiuti”, ora declassati a “tritarifiuti”) confinano qui con le fragole. Chi non voleva più vedere la spazzatura sotto le finestre di città è stato esaudito dalla bacchetta magica, anzi militare, del governo. Pazienza che torni loro in altre forme. Nella frutta sul tavolo della cucina, per esempio. Nelle nanoparticelle diffuse dai fumi densi degli incendi.
Circa un mese fa la Commissione petizioni del Parlamento europeo (una socialista olandese, una verde danese, un conservatore tedesco) si recò a Napoli a verificare la “soluzione” alla crisi dei rifiuti. Quando Judith Merkies, capodelegazione, in stivaloni e guanti nella discarica di Terzigno, estrasse un pneumatico dicendo “questo non dovrebbe essere qui”, fu chiaro anche a loro che la soluzione all’emergenza era un bluff. La visita fu per i tre deputati uno shock politico e culturale: discariche sorvegliate come basi dell’esercito, inosservanza delle regole europee sull’impatto ambientale, assenza di trasparenza e consultazione degli abitanti. E nessuna strategia, nessuna rete di impianti per il riciclo e il compostaggio, null’altro che scavare buche, stoccare ecoballe sotto il cielo nella campagna agricola, gridare all’emergenza per avere mano libera nel militarizzare il territorio. Quando sono andato anch’io a vedere la discarica di Terzigno, alle falde del Vesuvio, nel cuore del parco nazionale, era appena stato arrestato un ragazzo sorpreso a filmare all’ingresso principale. Mi hanno guidato Mariella Tafuto, Elena Velussi, Anna Fava e Sabina Laddaga, volontarie del “CoReRi” (Coordinamento regionale rifiuti). La famosa emergenza rifiuti di Napoli era ed è “un marketing terroristico”, mi dicono mentre ci inoltriamo in un paesaggio di vigne e oliveti da cui viene la Falanghina del Vesuvio e il Lacrima Christi. La discarica (già cava di pietra lavica) è segnalata da stormi di gabbiani che svolazzano. Profonda un’ottantina di metri, è un cono rovesciato come l’Inferno di Dante, ma pieno di rifiuti, i dannati della materia. Passiamo dal retro. Cartelli militari avvertono: Zona di interesse strategico nazionale. Vietato l’ingresso.
“Gli abitanti non possono accedere ai dati – mi ripetono le guide – né sapere cosa viene messo negli impianti. Nessun controllo, anzi una sospensione dei diritti, e perfino un tribunale speciale per la Campania, una super-procura che accentra ogni denuncia e inchiesta nel settore ambientale (Legge 123). Ogni atto che qui avviene in materia di rifiuti è in deroga ai diritti costituzionali. Oltre al fatto che le strutture tecniche, le persone che firmano le ordinanze sono le stesse di sempre, anche quelle compromesse coi clan. O come Marta De Gennaro, responsabile del settore sanitario della Protezione civile, arrestata e inquisita nel 2008 col vice di Bertolaso per avere occultato rifiuti pericolosi, poi promossa a gestire il terremoto a l’Aquila”. Nella gestione governativa dei rifiuti c’è continuità con metodi e persone della camorra. “La camorra prima scava una voragine, ne usa i materiali e vi sversa i rifiuti tossici; la zona viene sequestrata e il governo vi mette i rifiuti urbani che coprono ogni prova”. (Prima della militarizzazione dei siti, alcune discariche vennero chiuse grazie alle denunce dei cittadini. Ora tutto è secretato).
Intorno a noi eucalipti, fiori, limoni, vigne. Dietro il muro grigio e il reticolato il cratere che diffonde il fetore. Lo osservo arrampicandomi: un inferno nell’oasi, cosparso di detriti biancastri come i gabbiani, che ruspe e camion non riescono del tutto a interrare. La Cava Vitiello, lì vicino, è stata scelta dal governo come prossima discarica, anche se il signor Vitiello (come l’Unione Europea) si indigna all’idea. Ma a fianco del campo da calcio panoramico di sua proprietà, col Vesuvio da una parte e i monti dietro cui c’è Sorrento dall’altra, una serie di silos che raccolgono percolato produce un rombo sinistro e costante. In questo parco naturale ai contadini è proibito erigere un muretto a secco o una rete per conigli, ma non silos e discariche.
Abbiamo proseguito il viaggio alla discarica di Chiaiano, già paradiso delle ciliegie, con tanto di sagra. Attraversato un pruneto, ci siamo fermati e affacciati sul vuoto: un immenso buco in cui strati di amianto triturato sono stati coperti da tonnellate di nuovi rifiuti. Un’altra discarica abusiva ufficializzata dal governo, a poca distanza dagli ospedali. Anche qui volteggiano i gabbiani, portatori d’inquinamento con le loro deiezioni.
Più tardi, nel pomeriggio inoltrato, l’ultima tappa di questo “spazzatour” è nel casertano, la cui terra riconosciuta come la più feconda del pianeta, vera e propria fabbrica di cibo, è ridotta quasi a un’immensa discarica. Mi conduce l’agronomo e ricercatore, già combattivo vicesindaco di Caserta, Giuseppe Messina. Mi parla dell’aumento in Italia della desertizzazione, dovuta al cattivo uso del suolo. L’anno d’inizio della discesa agli inferi è il 1997, da quando per contratto la Fibe-Impregilo (di proprietà della Fiat) è diventata proprietaria dei rifiuti, esautorando gli Enti locali. Esistono tecnologie in grado di riciclare completamente i rifiuti, ma se l’imprenditore è pagato per bruciare, ha un piano solo per bruciare, non per pensare soluzioni europee, avanzate, che tutelino l’ambiente, l’agricoltura, la salute. I parametri sono già curvati secondo interessi prestabiliti: il Conai per esempio (Consorzio nazionale imballaggi), che smaltisce bruciandole il 45% delle plastiche da raccolte differenziate in Italia, e guadagna sia nella produzione che nello smaltimento, non perora certo una riduzione degli imballaggi nella merce, ma incoraggia l’usa-e-getta. Come mi spiegavano Elena e Anna al mattino, “occorre superare la nozione di rifiuto. Parliamo invece di materia come risorsa, non come rifiuto. Nessuno investirà sul riciclo finché sono così forti gli altri interessi”.
Ci fermiamo quindi nel triangolo della morte, ultimo girone, a poche centinaia di metri da Casal di Principe: Parco Saurini, S. Tammaro, Ferrandelle. Ogni rilievo, ogni collina (ce ne sono tante) racchiude una discarica interrata, su cui crescono cespugli giallastri. Ma ce ne sono altre speciali, incredibili: montagne incolori, ecoballe di rifiuti senza neanche la plastica, denudate e impudiche sotto un impietoso cielo azzurro. Quelle che Bertolaso aveva dichiarato di avere eliminato, che nessun manto vegetale ricopre. Come se l’esplosione finale al rallentatore di Zabriskie Point si fosse adagiata e ricomposta in colline compatte, incollando ogni frammento. Una marmellata biancastra e fetida punteggiata di plastiche sbiadite. Otto milioni di tonnellate di rifiuti esibiti a pochi metri da coltivazioni, allevamenti di bufale, vecchi caseifici. Terreni generosi che valevano anche 200.000 euro all’ettaro, e ora non valgono più niente, se non per chi ne ricaverebbe altre discariche a cielo aperto. A poche centinaia di metri giacciono impianti per il compostaggio inutilizzati e boicottati. Anche qui, il solito cartello etichetta le montagne di veleno che chiunque può toccare: Area di Interesse Stategico Nazionale. Divieto di accesso. Ai piedi del cartello un flacone di Vernel, l’ammorbidente. Mi stordisce l’idea di qualcuno che ha cura di ammorbidire il bucato ma è incurante di avvelenare la terra, cieco a ogni relazione tra i suoi gesti.
Quando più tardi percorro a senso inverso la desolata e rumorosa “terra dei fuochi”, la quotidiana abitudine alla bruttezza dove tutto ha inizio, dentro di me ripercorro il senso di questo reportage: sono i rifiuti la nostra nuova frontiera del Sacro, indissolubile dal Potere. Se “sacrare” qualcosa o qualcuno vuol dire separarlo dall’uso comune, dalla vita, noi ci siamo affacciati sulle discariche con terrore e tremore come su crateri di vulcani attivi, abbiamo contemplato le ecoballe come temibili fascinosi templi, e gli altari incolori, disgustosi e ipnotici che rendono alieno ciò che è stato nostro, separato per sempre, come la bottiglia di Vernel. Culmine della nostra alienazione, divinizziamo ciò che di noi non riconosciamo più, ma a cui sacrifichiamo tutto. “E’ un olocausto bianco”, mi aveva detto Mariella, una delle mie guide, invitandomi qui. Ma ciò che accade da anni in Campania non è che un laboratorio di quello che succederà, e sta anzi già succedendo, nel resto dell’Italia.
1 commento:
quando viene Berlusconi a visitare il Vesuvio
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