Inceneritori, le verità nascoste
Aveva 46 anni Antoine Lavoisier quando, nel 1789, pubblicò il suo Traité Élémentaire de Chimie (Trattato elementare di chimica) . Un trattato che aprì le porte della chimica moderna e che racchiudeva una delle leggi più importanti su cui si è basata la ricerca: la legge della conservazione della massa. Forse alcuni di voi la ricordano dagli studi del liceo, forse altri ne avranno sentito parlare in qualche trasmissione scientifica; a Palazzo Chigi di Lavoisier non sembrano averne mai avuto notizia.
Da tempo i nostri politici parlano di “termovalorizzatori”, termine inesistente sia nel gergo tecnico sia nella stessa lingua italiana, che lo ha dovuto adottare per forza di cose, non essendoci in Italia un confronto pubblico tra i diversi pareri in gioco. Anche in questi giorni, mentre a fatica si tenta di riportare la situazione napoletana alla normalità, la bufala viene riproposta come soluzione. Gli inceneritori - chiamiamoli con il loro vero nome – seguono le stesse leggi della chimica di tutti gli altri processi in natura, riducendo per combustione il volume dei rifiuti immessi, modificandone la composizione chimica, ma non la massa. Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
All’inaugurazione dell’inceneritore di Acerra, Berlusconi lo aveva definito “un dono di Dio”, una tecnologia innovativa da adottare in giro per l’Italia, che “inquina quanto due auto di media cilindrata poste a 110 metri di altezza”.
La verità, come spesso accade rispetto alle dichiarazioni dei nostri politici, è ben altra. L’impianto di Acerra è ben lontano dall’essere un prodigio della tecnica: dell’energia prodotta, solo un quarto viene impiegata per produrre elettricità. Il calore in eccesso, che potrebbe essere recuperato per il teleriscaldamento, viene smaltito in aria e in acqua, contribuendo ulteriormente all’abbassamento dell’efficienza di produzione, differentemente da quanto dichiarato da alcuni esponenti politici. La pochissima energia elettrica prodotta, in parte riassorbita dall’impianto per il suo funzionamento, viene incentivata oltremisura con i fondi del Cip6, destinati sulla carta alle fonti rinnovabili, il cui 92% – oltre 2.5 miliardi di euro all’anno – è invece finito ad arricchire le imprese che avevano costruito gli inceneritori.
A una scarsa efficienza energetica si aggiunge l’estrema pericolosità dei prodotti di scarto. Nel solo impianto di Acerra dovrebbero essere processate 81.21 tonnellate di rifiuti solidi urbani ogni ora, dai quali è stata eliminata (a meno di non smaltire le ecoballe che la stessa Fibe, azienda costruttrice dell’impianto, ha prodotto per anni illegalmente) la cosiddetta “frazione umida”. In sostanza, il potere calorifico che permette il parziale recupero dell’energia si basa principalmente su materiali come plastica, legno e carta, ampiamente riciclabili e dalle quali si potrebbe risparmiare fino a 7 volte l’energia impiegata per produrne di nuove e allo stesso tempo dare un serio apporto all’occupazione, visto l’indotto che si crea intorno alla filiera del riciclaggio.
Tuttavia, non si tratta unicamente di un problema energetico. In uscita dall’impianto, tra scorie provenienti dalla camera di combustione e dalle ceneri ottenute dal trattamento dei fumi, escono circa 21 tonnellate di rifiuti speciali, il cui smaltimento resta un compito difficile, generalmente affidato ad impianti di stoccaggio dedicati. Il problema di eliminare le discariche, quindi, è solo ridotto al costo di un aumento della tossicità del rifiuto da stoccare.
Le centinaia di materiali diversi che vengono combusti nell’impianto comprendono anche metalli pesanti e cloro – per citarne alcuni – che inevitabilmente fuoriescono dai camini, spesso legandosi chimicamente lontano dalle centraline di rilevamento per creare composti tossici di cui l’uomo è bioaccumulatore (es. diossine) o ridotte a dimensioni così piccole da illudere i sensori previsti dalla legge (nanopolveri), ma sufficientemente per superare la nostra barriera ematocerebrale e causare un aumento dell’incidenza di patologie oncogene.
Si tratta di circa 65 tonnellate ogni ora a cui vanno aggiunti i reagenti immessi nel trattamento, arrivando a circa 80 tonnellate ogni ora di composti di varia natura immessi in atmosfera, che vanno a precipitare sul terreno di un’area valutabile in qualche centinaio di chilometri quadrati. Nonostante le certezze della scienza, la strategia per affrontare la questione dei rifiuti in Italia è sempre la stessa: assegnare agli inceneritori il ruolo cardine della soluzione, aprire qualche nuova discarica con la scusante dell’emergenza e sbandierare dichiarazioni a vuoto sull’importanza della raccolta differenziata all’interno del ciclo.
Peccato che sia le leggi italiane – in particolare il Dlgs 152/06 e la Legge 296/06 – sia le direttive europee sostengano il contrario, obbligando a quote di riciclaggio del 60% entro quest’anno. Ad oggi, invece, solo 25 province riescono a superare la quota del 40%. Campania e Lazio sono i fanalini di coda tra le Regioni, con poco più del 10% e la Sicilia non gode di posizioni migliori: Palermo e Messina non raggiungono il 5%, saturando discariche che dovrebbero essere destinate ad accoglierne solo una piccola percentuale. San Francisco, la cui popolazione raccoglie quella di Napoli e Roma messe insieme, ha superato da poco il 75% della raccolta differenziata, raddoppiando in pochi mesi la quota attraverso la raccolta porta a porta.
Ma il riciclaggio è nemico degli inceneritori, perché li priva della loro materia prima, impoverendo le qualità caloriche del rifiuto urbano e rendendo poco conveniente il recupero energetico, persino in presenza dei fondi del Cip6. Le dichiarazioni dei politici inneggianti a un tragitto obbligato che impieghi entrambe le soluzioni, cominciando dalla costruzione di impianti di incenerimento, mostra l’evidente ignoranza rispetto a semplici principi di fisica e di chimica, o peggio, la malafede nella pianificazione della gestione dei rifiuti.
L’Italia persiste nell’adottare tecnologie obsolete e non sostenibili, che in fondo riflettono perfettamente i caratteri della sua classe dirigente. Assenza di pianificazione a lungo termine, ignoranza diffusa e corruzione: forse i veri rifiuti da smaltire siedono in Parlamento
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