venerdì 1 aprile 2011

RACCONTO: Fiamme armate

Racconto scritto e letto alla manifestazione del 30/03/2011, gentilmente inviatomi Sebastiano Di Paolo e volentieri pubblichiamo.

Fiamme armate
Un topo è la sentinella di un sacchetto. Nel sacchetto è finita ogni cosa. Somiglia al mondo quel fagotto di rifiuti, dove può capitarci di tutto. Le cose indesiderate e i pezzi dei tentativi per renderle desiderabili. Nessuno saprà se una mano sbadata vi avrà gettato pure un frammento di poesia, che a ricordarsene si finirebbe per riaprire la busta e infilarcela quella mano, per chiedere scusa alla malinconia e alla bella e meglio rificcarla nel caos delle cose giuste che si perdono in mezzo a quelle sbagliate. Il veleno, la sazietà, la fame e la sete. L’orgoglio e la vanità, l’uomo e la donna, le buone e le cattive intenzioni. Quella pancia di plastica somiglia alla nostra testa. Finisce all’ammasso, distrutta, schiacciata, e non sappiamo come trattarla.

E da lì dentro va via tutto, pure la vita, perché stanotte devono parlare le fiamme. Il fumo nero, che sotto i lampioni gialli diventa di un colore mai visto, si solleva dal fuoco, doloroso, come veleno nero tra le narici, come eroina scura che esplode nelle vene. Il fuoco.
Il fuoco stanotte brucia perché qualcuno è passato e ha detto la sua, prima dei discorsi politici, prima dei decreti, prima ancora che il sano consumo diventi combustibile per un’altra notte, una come questa, dove l’innesco non si vede, perché l’innesco in fondo siamo noi, ognuno di noi, nessuno escluso. Stanotte sono solo, e niente mi guarda, niente sembra soffrire che sia io a voler guardare tutto. Sono una cosa inutile in un inferno di cose inutili. Guardare tutto è impossibile. Gli occhi sono troppo piccoli, lo sguardo si restringe e si fa cenere dentro la cenere. Il topo è fuggito, la spia s’è spenta, forse è tutto finito sotto un altro sacchetto, il prossimo che brucerà nel silenzio di un’altra nottata, consumata al ritmo incessante di questa danza incendiaria. Voi dite che la discarica si deve fare, voi altri volete che non si faccia, ma chi ha ragione io non lo so. Io mi preparo a una malattia senza guarigione. E sono circondato da una trincea di rifiuti in fiamme, mentre la gente fugge, fugge via dalle esplosioni, con le mani e i fazzoletti alla bocca, la stessa gente che innesca, che vuole le discariche e non le vuole, che un giorno dice sì e il giorno dopo si frappone tra il camion, la polizia e la strada chiusa.
Il giorno è la prova maleodorante della vita nostra, e la notte ti brucia dentro pure sotto la pioggia d’inverno, e ti disperde col vento per tornare il giorno dopo. Un ciclo, una reazione, un processo metropolitano, che si vede e non si vede, come i più spettacolari giochi di prestigio, dettati dalle bocche migliori, quelle che incantano, con la magie delle parole buie. Ma qua in mezzo, stanotte, nessuno c’è, nemmeno io, nemmeno il topo che potrebbe tornare indietro da un momento all’altro. Non c’è la polizia, non ci sono i blocchi, non c’è la conferenza stampa del commissario speciale all’emergenza, non c’è la propaganda, c’è solo la vita nostra, che brucia, poco a poco.
Dove eravate quando nei consigli comunali, nelle giunte regionali, in parlamento, e negli altrove innominabili, i rifiuti stavano nascosti come merce preziosa, pronta per essere servita prima che la calce viva diventasse l’unica soluzione per queste strade morte da un pezzo? I rifiuti stanotte bruciano e fanno luce, una luce arancione, scura, infernale. Fanno luce ai manifesti elettorali, ai partiti, alle facce gentili, ai sorrisi, ai simboli, ai colori, al cancro e all’inchiostro. Dove eravate quando questo petrolio solido era nelle tasche dei clan, nei bilanci neri della camorra, nei successi delle eco-mafie? Non vedete come quelle facce sorridono pure dietro alle fiamme?
La città brucia, e non è un film, non c’è Nerone a farla bruciare, non c’è la guerra a dare calore al calore, ma la città brucia, e stanotte, come tante altre, ci brucia dentro. Ma tutti devono saperlo, una buona volta, che là in mezzo, sotto i manifesti, tra gli animali e gli uomini della notte, al suono delle sirene dei pompieri, bruciamo anche noi, uno per volta e tutti insieme. Come fossimo una specie unica di vita. Siamo un genere privilegiato, un’anomalia del miracolo, perché bruciamo stanotte, bruceremo domani e dopodomani. Un’araba fenice che diventa controfigura di popolo. Sono le nuove metamorfosi, affogate nel sangue di un genio nero, che mischia la vita e la morte, nel silenzio assassino dell’Hinterland come in un altoforno, dove stanotte nemmeno l’anima mia perduta ferma queste fiamme armate fino ai denti.
Elio Goka

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