Il disastro ambientale legittima il danno morale. 5mila euro per la sofferenza psichica derivata dalla preoccupazione per la propria salute. Il «patema d'animo» dei cittadini preoccupati per le ripercussioni sulla propria salute provocate da un ambiente inquinato da sostanze altamente tossiche deve essere risarcito come danno morale. Così la Cassazione (sentenza 11059 depositata il 13 maggio 2009) ha riconosciuto a un'ottantina di cittadini residenti in prossimità dell'impianto di Seveso (Milano) – dal quale il 10 luglio di 33 anni fa, nel 1976,fuoriuscì una nube tossica composta da diossina – un risarcimento di 5mila euro ciascuno come danno morale per l'ansia vissuta in quel periodo. Nel 1995 quelle persone citarono in giudizio la società Icmesa per danno morale derivato dalla paura di aver ompromesso la propria salute a causa del contatto con la diossina. Dopo la condanna per disastro ambientale, il Tribunale e la Corte d'appello di Milano, nel 2005, imposero un risarcimento danni per 5mila euro a ciascun ricorrente. Nel ricorso in Cassazione Icmesa sosteneva che non ci fossero i presupposti per il danno morale sostenendo, tra l'altro, che non c'era la prova che i residenti nella zona della nube tossica avessero avuto ripercussioni nella vita sociale e di relazione. La terza sezione civile, però, ha respinto il ricorso. Secondo i Supremi giudici, infatti, «ampiamente provata era la sofferenza psichica e personale patita dai cittadini che, in quanto soggetti a rischio, erano stati sottoposti a
«ripetuti controlli sanitari sia nell'immediatezza dell'evento sia successivamente per parecchi anni fino al 1985». Un vero e proprio incubo che configura quella «sofferenza psichica» che «giustamente» – secondo la Suprema corte – i giudici di merito avevano qualificato come danno morale, risarcendo gli interessati con 5mila euro, «una valutazione prudenziale se non addirittura minima del danno morale in questione». I giudici della Cassazione scrivono che deve essere riconosciuto il «danno non patrimoniale» ai cittadini per il «patema d'animo indotto in ognuno dalla
preoccupazione per il proprio stato di salute». Un risarcimento che, come ottolinea la Supremacorte, «ben può essere provato per presunzione, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi» del patema d'animo e della sofferenza interna dovute alla preoccupazione di ammalarsi. Applicando questo principio, la Cassazione ha respinto il ricorso dell'impianto di Seveso Icmesa. I giudici di piazza Cavour hanno sottolineato che «giustamente» i residenti di Seveso sono
stati risarciti per i danni morali patiti. Inoltre – osservano gli stessi giudici – «la sentenza è del tutto conforme a diritto dove afferma che il danno non patrimoniale consistente nel patema d'animo e nella sofferenza interna ben può essere provato per presunzioni e che la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l'unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell'uno in ipendenza del verificarsi dell'altro secondo criteri di regolarità causale».Infine – conclude la Cassazione in riferimento alla liquidazione definita «eccessiva» dalla società – l'importo di 5mila euro «liquidato in via equitativa in favore di ciascuno degli attori» corrisponde «a una valutazione prudenziale, se non addiruttura minima del danno morale in questione. Il che non altro significa che, secondo l'apprezzamento di fatto compiuto dal giudice di merito con motivazione senz'altro adeguata, in nessun caso potesse ipotizzarsi, per ognuno, una valutazione equitativa del danno inferiore a quell'importo».
(N. T., Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2009, p. 32)
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