Una realistica analisi di Daniele Fortini AD Asia e Presidente federambiente sullo stato dell'arte "monnezza" in campania! GLI italiani seppelliscono in discarica, senza minimamente trattarli, il 50 per cento dei loro rifiuti urbani prodotti ogni anno. Negli ultimi 10 anni abbiamo nascosto sottoterra quasi 200 milioni di tonnellate di rifiuti, una quantità pari al volume edificato delle città di Roma e Napoli messe insieme. Insomma, abbiamo messo sottoterra l’equivalente dello spazio volumetrico in cui vivono oltre 4 milioni di italiani. Negli ultimi 10 anni abbiamo consumato oltre 1 milione di ettari di suolo patrio per allestire discariche (che dovranno essere bonificate) ed ancora dovremmo continuare a farlo per non essere sommersi da montagne di spazzatura in tutte le grandi città italiane. Roma, Napoli, Genova, Palermo, Bari, Firenze, Catania e Torino, cioè alcune delle più importanti città metropolitane del paese, sebbene in quantità differenti, hanno tutte bisogno di discariche per smaltire i rifiuti che non inviano al riciclaggio. Torino raggiunge il 45% di raccolta differenziata e Palermo soltanto il 7%, ma entrambe hanno ancora bisogno di buche dove mettere i rifiuti residui. Torino sta costruendo il proprio impianto di recupero energetico dalla combustione dei rifiuti residui, mentre Firenze e Genova hanno pianificato e realizzeranno loro impianti, ma ancora per i prossimi quattro anni Firenze e Genova, come Roma, Napoli, Palermo, Bari e Catania avranno bisogno di discariche. Anche nel 2012 e fino al 2014, in buona sostanza, il fabbisogno italiano di discariche sarà quello attuale: almeno 14 milioni all’anno di tonnellate.
Così procedendo l’obiettivo “discarica zero” nel 2020, patrocinato dall’Unione Europea e già raggiunto in Danimarca e Olanda (2006), in Belgio, Svezia e Austria (2007), in Germania (2008) appare illusorio per l’Italia almeno quanto quello di raggiungere il 50 per cento di recupero di materia dai rifiuti urbani. Continuiamo a imbrogliarci con l’illusione della raccolta differenziata “che toglie i peccati del mondo”, ma evitiamo accuratamente di parlare l’esperanto europeo, cioè non parliamo mai di quanta materia effettivamente si recupera dai rifiuti raccolti in modo selettivo: in tutta Europa, come in Italia, soltanto il 30% delle plastiche viene effettivamente riciclato mentre il resto viene inviato in discarica (Italia) o alla combustione (Europa). Dopo, ovviamente, aver speso un sacco di soldi per la raccolta differenziata, la preselezione e la selezione del materiale e il pretrattamento di quello effettivamente riciclabile. Consumando impressionanti quantitativi di energia (prodotta da combustibili fossili) e di ambiente (miliardi di kilometri per migliaia di camion inquinanti). Sarebbe sufficiente vietare, per davvero, l’uso di plastiche superflue (gli shoppers, le confezioni monouso di merci ed alimenti) ed apporre il “vuoto a rendere” sulle bottiglie (P.E.T.) per compiere una azione ambientalmente responsabile ed utile. Ma non si fa. Sono tante le buone pratiche ambientali che potrebbero, da subito, essere realizzate e che interessano cittadini e poteri locali (che fine hanno fatto gli “acquisti verdi” della pubblica amministrazione?), ma che non si fanno, per pigrizia e per interesse. Le stesse ragioni per cui non si fa riuso di beni ancora utili e, soprattutto, non si adotta il “Piano nazionale per la prevenzione e la riduzione dei rifiuti” che l’Unione Europea raccomandava agli Stati membri di approvare entro il 2010, cioè entro due anni dall’approvazione della Direttiva 98/2008/CE. Che l’Italia, manco a dirlo, ha approvato e recepito. Troppa fatica, troppi problemi, troppo impegno dover agire in questa direzione. Molto meglio dedicarsi alla raccolta differenziata (non all’effettivo riciclo!) che scarica sui cittadini e le comunità locali le responsabilità ed i compiti. Ora che i soldi sono finiti e che per far bene le raccolte differenziate ne serviranno di più, i Comuni dovranno aumentare le tasse e così i cittadini avranno un maggior carico di responsabilità (separare i rifiuti, tenerli in casa, consegnarli ad orari da rispettare) e pagheranno di più, perché è oramai consolidato che con la vendita dei materiali raccolti in modo differenziato si riesce, se il gestore è molto bravo, a ricavare soltanto il 30% di quanto costa il ciclo della raccolta, della selezione e della valorizzazione dei rifiuti riciclabili. La politica, quindi, non parla in modo sincero agli italiani. Imbroglia nella applicazione delle buone pratiche ambientali come nella determinazione del valore reale della raccolta differenziata. Imbroglia, soprattutto, quando invoca emergenze che non ci sono o che, più onestamente, essa stessa ha creato.
Guardiamo al “caso Campania”. Berlusconi e Bertolaso (ottobre 2010) dichiarano “indispensabili nuove discariche” per almeno 6 milioni di tonnellate di rifiuti. Il quantitativo necessario ad accompagnare la fase di massimo sviluppo delle raccolte differenziate (non di effettivo riciclo) e quella di costruzione di due nuovi termovalorizzatori (Napoli e Salerno). Tutti, dal presidente della Regione Campania Stefano Caldoro al generale dell’Esercito Mario Morelli, dal Procuratore della Repubblica Giandomenico Lepore al presi-rlPntP della commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti Gaetano Pecorella, si dicono convinti della necessità. Tutti convergenti e convinti, ma il governo (novembre 2010) approva un decreto legge (il numero 196 del 26/11/2010), che cancella le discariche previste in Campania dalle leggi precedenti. A Natale del 2010 Napoli brinda con 3.000 tonnellate di immondizia nelle strade. A Pasqua non andrà meglio: brindisi con 3.000 tonnellate di rifiuti a terra. Però, da dicembre a giugno ed ancora adesso, saranno esportate dalla Campania centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti. Dove? In discarica, ovviamente. In Puglia e in Sicilia o in Toscana. Comunque in discarica e, prevalentemente, in discariche private. Per tramite di regolari gare che hanno individuato gli impianti di smaltimento? Oltre 20 milioni di euro spesi, in soli 6 mesi, per esportare rifiuti in altre regioni. Ci si compravano due impianti di compostaggio e si sarebbe evitato di spendere i 18 milioni all’anno che la Campania ancora spende per esportare (soprattutto nelle regioni “leghiste”) i suoi rifiuti umidi e compostabili. Se si fossero usate le discariche autorizzate della Campania (tutte pubbliche) e costruita una nuova da 1 milione di tonnellate (decisa il 4 gennaio a Palazzo Chigi) l’emergenza di questi mesi non ci sarebbe stata, non si sarebbero buttati al vento decine di milioni di euro e si sarebbe risparmiato all’Italia l’ennesimo disonore planetario. Oltre, ovviamente, l’aver risparmiato la salute e la rabbia dei napoletani. Ma il nodo torna alla politica: dove farla quella “benedetta” discarica? Il coro, anche in questo caso, è unanime tra gli esperti e la società civile. Deve essere fatta nelle aree che, per densità di popolazione, siti idonei e distanza dalle concentrazioni demografiche appaiono i migliori. Gli stessi criteri, insomma, che orientano la scelta delle discariche in Liguria come in Trentino.
(di Gabriella Corona e Daniele Fortini da la Repubblica Napoli)
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