Cantone: "Gomorra alibi per la borghesia"
Il giudice sotto scorta per le minacce ricevute dalla camorra parla del suo ultimo libro in uscita, assicura che non sarà candidato sindaco a Napoli e riflette sull'opera di Saviano
dal nostro inviato CONCHITA SANNINO
GIUGLIANO - Cancelli pesanti, ferro e legno. Dall’interno non filtra la luce del giardino, da fuori non penetra nulla del paesone in cui è nato il padrone di casa. Come se l’onesto figlio di provincia, una volta diventato Raffaele Cantone, già pubblico ministero di punta dell’Antimafia, ora giudice del Massimario della Cassazione nonché autore per Mondadori da ieri è in libreria "Gattopardi" e perfino candidato in pectore come prossimo sindaco di Napoli, avesse piantato una riga di pennarello tra sé e il resto. Un solco salvavita nel centro di Giugliano, cuore guasto dell’hinterland. Di là, appena fuori del viottolo di casa sua, il caos e gli abusi, le moto che sfrecciano e le cupolette mafiose, l’immondizia e le altre offese ai nobili retaggi del comune che lo ha visto crescere.
E dove, da ragazzo, come non pochi studenti di provincia, ha rischiato di cadere per errore in un’imboscata di sicari incapaci. Al di qua del perimetro, invece, il recinto di normalità su cui vigila una scorta di cinque uomini armati dopo le minacce dei casalesi, radici protette e affetti solidi.
Così, sembra che si presenti fin dall’uscio il metodo Cantone. La «mediazione possibile» tra scappare e resistere, rimanere se stessi o lasciare. Soprattutto ora che il magistrato, 47 anni e due figli, finito in classifica due anni fa con la biografia «Solo per giustizia» targata Mondadori proprio come il suo amico Roberto Saviano, non vede l’ora di tornare qui. «Il mio sogno? Tornare a fare il giudice. Nelle nostre terre di trincea».
Voltare le spalle all’ovattato clima della ricerca giuridica, entrare nei tribunali del sud penalizzati da superlavoro e tagli. E rimettere le mani nel penale. «Ma sì, è questione di tempo. Ormai ci penso spesso», butta fuori. Sembra sincero. Sempre che, prima, non «inciampi» nella poltrona di sindaco di Napoli che una parte del Pd e della coalizione di centrosinistra continua ad offrirgli. Cantone sorride e stoppa. «Un momento, una cosa per volta. Per me Lucia Annunziata sarebbe un’ottima, autorevole candidata del Pd e del centrosinistra. Ma, al di là delle legittime ambizioni, non mi pare le facciano ponti d’oro. E questo fa riflettere». La cautela. Tratto distintivo del personaggio, e del magistrato.
Anche l’aria timida, in apparenza, è rimasta immutata. Come quando Cantone squadrava da capo a piedi un cronista che avesse osato far domande nella sua stanza di pm secchione, al Centro direzionale, alle prese con i clan sanguinari di Mondragone, o con gli interessi dei casalesi. O, ancora prima, quando, al tempo in cui era un giovanissimo praticante avvocato, rimase impietrito di fronte a quei delinquenti piombati sull’auto che avevano scambiato per quella di due nemici. «Il mio amico apre la portiera, il bandito ci guarda, guarda il suo complice, poi grida «Ma nun so’ lloro!». E scappano. Ho sempre pensato che quella sera mi è stata data un’altra possibilità». Ora si affaccia nel saloncino elegante, jeans e pullover del padre di famiglia.
Una vita sobria. A messa la domenica, poi pranzo in famiglia, i commenti alle partite con il figlio tredicenne Enrico («rigorosamente tifosi del Napoli»), mentre — sotto lo sguardo della moglie Rosanna, a occhio e croce il «pm» più paziente di casa — la primogenita Claudia, quindici anni, torna di sopra a studiare. L’obiettivo resta «vivere da famiglia semplice, malgrado tutto». Pochissima nondanità, un giardino borghese mitigato dal bucato che si fa strapazzare dal vento di novembre, il cesto del basket in mezzo agli alberi sul retro. «A Napoli? Difficile che mi faccia vedere in giro, o a teatro o a un anteprima. Più facile trovarmi nelle scuole, mi piace parlare ai ragazzi. Mi divido tra Giugliano e Roma. Metà settimana nel mio ufficio di Cassazione, per l’altra metà studio e scrivo a casa perché il Massimario conta un eccezionale motore di ricerca con il quale studiare le sentenze. Lì, da tre anni vivo un’esperienza formativa e di grande privilegio, forse i tempi sono maturi per rientrare alla materia con cui sono cresciuto».
Non più da pubblico ministero, ovvio. «Da giudicante, certo. A Napoli, oppure a Santa Maria Capua Vetere». A Santa Maria? Gli stessi uffici da cui partirono le più esplicite minacce per lui, Saviano e la giornalista Capacchione? «Un magistrato deve poter fare il suo lavoro fino in fondo, quando è tutelato dallo Stato». Poi torna all’area casertana e all’analisi: «L’attenzione mediatica sul casertano ha prodotto risultati, persino rischiando di schiacciare qualunque emergenza sull’unico fuoco di Gomorra», riconosce. Anzi, va oltre: «Il metodo Caserta rischia di far dimenticare altra camorra, più mimetica e pericolosa. E rischia di rappresentare le organizzazioni criminali in maniera un po’ manichea. Da un lato i pattuglioni di criminali o di sicari in lotta e dall’altra gli inconsapevoli o le vittime, che formerebbero la società civile. Ma quando mai. Non è così purtroppo. Il sistema Italia dimostra il contrario».
Ci pensa su, lo dice. «Fatte salve le aree di impegno vero, insomma, non si può dire che nel paese ci sia la linea che separa i cattivi dai buoni». Detto da un «buono», fa effetto. Ma è proprio intorno a questa sfida che alla fine Cantone ha costruito il suo secondo libro, una conversazione con Gianluca Di Feo, «Gattopardi», in uscita proprio in questi giorni. «Volevamo provare a raccontare la penetrazione del grande crimine nella vita di ogni giorno, descrivere con dovizia di dettagli ed esempi concreti le zone grigie della politica e dell’economia». Dalla Parmalat ai Cosentino, passando per «il mancato scioglimento del comune di Fondi, gravissimo, fino ai gattopardi di ogni partito, capaci di traghettare valanghe di voti da un’insegna all’altra senza che nessuno batta ciglio, nomi e cognomi, anche campani». Fino a Nicola Ferraro, uomo forte dell’Udeur.
Sembrerebbe inutile chiedergli, se in questo campionario di contraddizioni, l’ex pm di trincea abbia cambiato idea sulla «fondamentale importanza» di Gomorra. Cantone resta amico di Saviano, «ammiratore del suo talento», ma anche lucido. «Quello che è successo con Gomorra, tra gli effetti collaterali, è una cosa sottile e insidiosa: la borghesia e tutte le fasce grigie che hanno avversato duramente Roberto, ora usano il suo libro per stare a posto, per mettersi a parte civile. Della serie: «Io sono impegnato, ho Gomorra sul comodino». Ma Roberto lo ha scritto perché fosse di stimolo, perché aprisse gli occhi, non per far chiudere gli occhi sul libro».
Gomorra a parte, come non parlare della politica? Cantone sente di potersi misurare con una sfida politica, ad esempio come eventuale candidato sindaco? «Coltivo due cose preziose nella mia vita. La famiglia, cioè il nucleo più privato degli affetti. E il mio profilo di libero pensatore. Indossando una casacca politica, anche la migliore, in fondo perderei queste due ricchezze. Francamente, al di là di motivazioni più articolate, non me la sento». Gli occhi di finto timido guardano altrove, per un attimo. È forse il sintomo di una bugia? Ci vorrebbe un magistrato, possibilmente secchione.
(12 novembre 2010
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